Gesti scorretti o violenti in campo. Quali i rischi?
A grande richiesta, torna un nuovo capitolo della rubrica curata dall’Avv. Antonio Costa Barbè, legale molto conosciuto ed affermato in Novara, sulle tematiche legali relative al mondo dello sport. Vi siete mai chiesti se un atleta, non solo un giocatore di calcio, vada incontro a sanzioni civili o penali, per un determinato comportamento di quest’ultimo assunto durante una gara? Questa volta analizzeremo proprio quest’aspetto, una tematica interessante perché non sempre si dà importanza all’argomento, che è tuttavia una componente fondamentale nel mondo agonistico, specie al giorno d’oggi.
redazione vanovarava.it
Partita amichevole di calcio: quando l'entrata in scivolata costituisce reato (Cassazione penale, sez. IV, sentenza 06.10.2006 n° 33577). “La condotta del giocatore non professionista deve essere correlata al tipo di competizione in atto, tanto da essere richiesta una particolare cautela e prudenza per evitare il pregiudizio fisico all’avversario e quindi un maggior controllo dell’ardore agonistico, non equiparabile a quello che caratterizza le competizioni sportive tra professionisti, le cui azioni impetuose, invece, sono scriminate nei limiti del rischio consentito”. È questo - in sintesi - quanto ribadito dalla Corte di cassazione nella sentenza di qualche anno fa (6 ottobre 2006, n. 33577).
La sezione IV penale ribadisce così l’orientamento dominante secondo cui si ha illecito sportivo quando: si violano le regole tecniche della disciplina sportiva praticata; si viola il rischio consentito; l’uso della forza è spropositato in rapporto al tipo di sport praticato, alla natura della gara (professionistica o amatoriale, amichevole o ufficiale).
Tradizionalmente, in dottrina, si classificano gli sport in ragione del grado di violenza necessaria a raggiungere la finalità cui la disciplina si prefigge; si parla di:
a) attività sportiva non violenta (es. tennis, nuoto) in cui manca qualsiasi contatto fisico tra gli avversari;
b) attività sportiva eventualmente violenta (es. calcio, basket) in cui c’è un contatto fisico tra gli atleti che può causare lesioni o traumi agli stessi;
c) attività sportiva necessariamente violenta (es. boxe, judo, wrestling) in cui il contrasto fisico, lo scontro tra gli atleti e l’uso della violenza è nella natura stessa del gioco.
L’uso della forza negli sport è ormai pacificamente scriminato, secondo alcuni per il consenso dell’atleta, che conosce le regole del gioco e le accetta. Tesi criticata in quanto il consenso sarebbe prestato in via estremamente generica ed altresì sarebbe non invocabile in caso di lesioni permanenti o in caso di morte dell’atleta: ciò infatti contrasterebbe con specifiche norme di legge (gli artt. 579 c.p. e 5 c.c.), che sanciscono l’indisponibilità del diritto alla vita e all’integrità fisica.
Secondo altri autori l’attività è scriminata dall’esercizio del diritto: ne è riprova la legge istitutiva del CONI. Tuttavia tale ipotesi ricostruttiva non è applicabile alle competizioni amatoriali (Pezzella, La colpa sportiva e il rischio consentito. Dal calcio al rally, le sentenze sulla responsabilità degli atleti, in D&G, Diritto e Giustizia, 44, 2005, 60 e ss.).
Oggi più giustamente si propende nell’inquadrare l’attività sportiva violenta tra le scriminanti tacite o non codificate, al pari delle informazioni commerciali e dell’attività medico chirurgica, in vista dell’utilità sociale sottesa all’esercizio dello sport, quale momento di aggregazione e sviluppo armonico del singolo nella società (si veda Mantovani, Diritto Penale, Parte generale, 289 e ss. Ed anche Garofoli, Manuale di diritto penale, Parte generale, 2005, 377 e ss.).
Anche la giurisprudenza si è stabilizzata su tale ricostruzione con la sentenza della Cassazione n. 1951 del 02 Dicembre 1999 (ric. Rolla); il Collegio con tale sentenza sembra considerare rilevante il rischio consentito, “basandosi su un’indagine sugli aspetti psicologici dell’atleta (e sulle modalità di verificazione del fallo di gioco) e staccandosi dalla riconducibilità alla esimente del consenso dell’avente diritto, poiché costruisce la scriminante riguardante l’esercizio dell’attività sportiva dando rilevanza penale assoluta ed indiscriminata alle condotte fallose volontarie poste in essere durante la competizione sportiva” (si veda Mirra, Attività sportiva agonistica: responsabilità civile e accettazione del rischio).
La Cassazione, nelle sentenze successive, ha poi chiarito che l’esercizio dell’attività sportiva va qualificato come causa di giustificazione non codificata, nel senso che il soddisfacimento dell’interesse generale della collettività a svolgere attività sportiva, può consentire l’assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo all’integrità fisica (Cassazione, quinta sezione, sentenza 2765/01, Bernava).
Avremo reato solo quando si supera il rischio consentito. Per lungo tempo ci si è preoccupati ad individuare quale fosse la linea divisoria tra attività sportiva rude ma lecita e quella invece da considerarsi illecita. In giurisprudenza si è a lungo tempo affermato che la condotta dell’atleta potrà considerarsi lecita soltanto quando rispetti in toto le regole specifiche della disciplina praticata. Nell’ipotesi in cui si verifica un illecito sportivo si ha un elemento sintomatico della volontarietà della violenza utilizzata oltre le regole tecniche. Tale orientamento è stato fortemente contrastato perché opera una parificazione, attraverso un’analisi puramente oggettiva ed in astratto, tra l’illecito sportivo e l’illecito penale, estromettendo dall’analisi la situazione fenomenica concreta e qualsiasi profilo soggettivo di responsabilità.
Attenta dottrina ha giustamente sottolineato come, l’elemento soggettivo che rende penalmente rilevante il comportamento posto in essere dall’atleta, è la volontà di arrecare pregiudizio all'integrità fisica dell'avversario. “Il criterio discriminatorio tra illecito penale ed illecito sportivo è, infatti, costituito dalla sussistenza o meno del rapporto di funzionalità tra l'azione che ha causato le lesioni e lo scopo proprio dell'attività sportiva” (cfr. Buffone, Lecito ed illecito in chiave sportiva, in Altalex, che richiama Pret. Trento, 11/05/1996 in Riv. Dir. Sport, 1997, 277). Infatti parte della dottrina, vicina a tale orientamento, sosteneva che le regole sportive dovevano essere considerate regole di comune prudenza la cui violazione integrava colpa penale.
Scartata questa interpretazione, la tesi dominante afferma che l’illecito sportivo si verifica quando l’atleta, durante la foga agonistica, infrange le regole del gioco, potendo anche causare lesioni all’integrità fisica dell’avversario.
Si è altresì evidenziata la differenza tra il fallo commesso in una fase statica della competizione ed il caso del fallo commesso nel mentre della gara, anche con foga agonistica, con l‘intento di fermare o contrastare l’avversario.
Nella prima ipotesi si parla del fallo a gioco fermo: sempre più numerose sono le decisioni in cui viene condannato l’atleta che commette un fallo a gioco fermo perché si presume che nella fase statica della gara non ci sia contatto fra gli atleti, pertanto l’uso della violenza non è richiesto, quindi è sintomo di una gratuita aggressione all’avversario.
Nell’altra ipotesi invece si deve in primis analizzare il fatto storico, in modo da poter delineare il tipo di competizione (professionistica o amatoriale; agonistica o meno; amichevole, allenamento, ecc.) in relazione alla quale l’atleta dovrà modulare la propria irruenza e foga sportiva, nel rispetto delle regole tecniche dello sport, ma soprattutto nel rispetto dell’avversario e dei generali principi di lealtà e correttezza sportiva (cd fair play), che ormai sono alla base di tutte le competizioni sportive e dei relativi regolamenti.
A fare chiarezza è stata un’importante sentenza della Cassazione penale, sez. V, 2 dicembre 1999, n. 1951 (ric. Rolla), in cui la fattispecie analizzata riferiva di lesioni prodotte nel corso di una partita di pallacanestro in una fase di gioco “fermo” da parte di un giocatore che, sferrando un pugno all'avversario, gli procurava la frattura della mandibola. In particolare il Collegio affermava che “non è giustificato ed è, quindi, perseguibile penalmente il comportamento del giocatore che violi volontariamente le regole di gara e disattenda i doveri di lealtà verso l'avversario”.
Importante contributo al tema è offerto anche dalla recente sentenza Cassazione n. 19473/05 in cui il collegio sottolinea che l’illecito sportivo è “nozione che ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che governano lo svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili, neppure quando risultano pregiudizievoli per l’integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto non superano la soglia del c.d. rischio consentito. Si tratta di un’area di non punibilità, la cui giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica di una condizione scriminante”.
La Cassazione, sempre con la sent. n. 19473/05 chiarisce che il rispetto delle regole segna il discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva. Tuttavia anche in caso di violazione delle norme del regolamento sportivo viene travalicata l’area del rischio consentito, ove la stessa violazione non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un’azione che, nella concitazione o trance agonistica (ansia del risultato), può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette. Pertanto “tutte le volte in cui quella violazione sia, invece, voluta, e sia deliberatamente piegata al conseguimento dei risultato, con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell’area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della colpa. Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l’occasione dell’azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica” (…) “Quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un’ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all’avversario, ma al conseguimento in forma illecita, e dunque antisportiva di un determinato obiettivo agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo svolgimento di un’azione di gioco non sia stato altro che mero pretesto per arrecare, volontariamente, danni all’avversario”.
Il collegio richiama il precedente della sentenza n. 9627 (Lolli) del 1992: la fattispecie di cui si è occupata la Corte era relativa proprio del gioco del calcio e, in particolare, del caso dell’atterramento da parte di un difensore, con un calcio sferratogli da tergo, dell’attaccante avversario, in possesso di palla e lanciato a rete, in cui si è affermato che l’accertamento relativo al superamento del rischio consentito “è questione di fatto da risolvere caso per caso in relazione al tipo di sport ed anche al tipo di gara nell’ambito di quel determinato sport” in quanto “il rischio accettabile ed accettato varia, infatti, a seconda che si tratti di un incontro tra professionisti o tra dilettanti, o di semplice allenamento, o di gara amichevole, fino a dover diventare minimo nel caso di incontri tra squadre di ragazzi o di fanciulli”.
Anche in quel caso la Cassazione ha escluso l’elemento del dolo “perché il fatto lesivo avvenne in un’azione di gioco finalizzata ad impedire che l’avversario si proiettasse con il pallone verso la rete avversaria”, ma ha riscontrato la sussistenza della colpa perché il difensore commise un fallo che, oltre ad essere volontario, era diretto contro l’avversario e di portata tale (non sgambetto, ma violento calcio sulla gamba) da comportare la prevedibilità di conseguenze gravemente lesive non ammissibili, per di più in un incontro tra dilettanti. Secondo la sentenza Lolli il superamento del rischio consentito si verifica “quando il fallo, oltre che essere volontario, sia di tale durezza da comportare la prevedibilità di pericolo serio dell’evento lesivo a carico dell’avversario, che in tale caso viene esposto ad un rischio superiore a quello accettabile dal partecipante medio”.
Sempre relativa al gioco del calcio è Cassazione, quarta sezione, sentenza 24942 del 2001, (Pettinati), (in Cassazione Penale, 2002, 31, 247): la Suprema corte ha ritenuto la responsabilità per il reato di lesioni colpose ex articolo 590 Cp “per colpa, consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, ed in particolare per aver violato la norma prescritta per le gare di calcetto a cinque che impone il divieto di contatti fisici tra gli avversari” di un atleta che, in gara, aveva colpito al volto il proprio avversario con una gomitata.
Infine è da segnalare la sentenza Cassazione, sez. IV penale, del 07 ottobre 2003 n. 39204, in cui in relazione ad un “fallo a gamba tesa”, il collegio afferma che “il giocatore che, durante una manifestazione sportiva, cagioni da un altro atleta una lesione personale mediante una violazione volontaria delle regole di gioco, tali da superare i limiti della lealtà sportiva, commette il reato di lesioni colpose di cui all’articolo 590 del Codice Penale”.
Avv. Antonio Costa Barbé
(grazie ad Altalex)