Nella buona e nella cattiva sorte
Di Alice Previtali
Foto © novaracalcio.com
Forse ora è chiaro che l’allenatore può avere colpe solo direttamente proporzionali alle qualità della squadra, sia essa mediocre nel gioco o nel carattere, perché per quanto possa tergiversare, cambiare e girare i giocatori, non si possono fare i miracoli e, poi, perché i miracoli non esistono. Esistono doti, talenti incrementati da allenamenti, duro lavoro e una forte motivazione.
Se abbiamo una difesa che non difende, un centrocampo che non coadiuva e una punta che non punge, dobbiamo appellarci solo a San Gaudenzio o espatriare, a questo punto, a religioni più orientali. Ripeto, Buzzegoli è sotto una buona stella altrimenti sarebbe già stato spedito in lidi lontani, soprattutto dalla società “ferrantiana” in cui vige il motto “La pazienza è la virtù dei forti ma non la mia”, se non fosse un periodo di scelte monetarie o crisi d’identità imprenditoriali.
Il punto è che la preoccupazione maggiore non risiede nei giovincelli che da subito avevamo ben chiaro di quanto avrebbero abbassato età anagrafica ed empirica, ma sostitutivi di quello che volevate da sempre, liberarvi di mattoni brizzolati con un curriculum da paura ma non meritevoli di stare sotto la Cupola, quanto piuttosto dalla nostra cara vecchia guardia, rimasta in auge.
Eh sì, perché da loro arrivano le delusioni maggiori, da chi commette certe disattenzioni che non possiamo giustificare. Non è questione di passaggi sbagliati o gioco lento (cioè… lo è, ma il problema è molto più elementare) quanto piuttosto di aver dimenticato come si sta in campo: dalla postura, dalla mollezza di un corpo che si trascina o gambe sofferenti, a priori, dal viso con espressioni di perdizione e condanne. Questo mostrarsi “sfigati”, portatori sani di lamenti e vittimismo è fastidioso e preoccupante, un grossissimo scoglio e che chiama inevitabilmente a noi la vera iella. Sfiga chiama sfiga, come si è visto.
Lamenti, braccia alzate, spalle curve. E i giovani che boccheggiano per mostrarsi alunni diligenti mettendo in atto ciò che hanno studiato, ma anziché trovare maestri trovano sconfitti. Manca la leadership, manca un capo branco, manca un capitano. Non me ne vogliano Ranieri e Bonaccorsi ma qui sono spariti i loro caratteri, oltre che le loro prestazioni. Dove è finito il bramoso Samuele che si scuoteva per ogni azione non andata bene? Senza un comandante, un condottiero che oltre ad indossare la fascia e attendere il lancio della monetina dirige la truppa durante il combattimento, fosse solo con uno sguardo o un consiglio di posizione in campo, le armi che si hanno in mano non possono arrivare al bersaglio.
La stagione precedente avevamo una rosa livellata ma con una leadership negativa che ha inficiato fino alla fine. Quest’anno partiamo con la maledizione di Zebi (sono sicura che ci porta una sfiga bestiale) accollato ancora alla nostra società, se non erro, la quale non si sa ancora di chi sarà figlia e dei fanciulli ripescati dai loro incubi, consapevoli dell’opportunità che papà Di Battista ha concesso e che vogliono comunque provarci, ma che hanno bisogno di aiuto.
E il miglior insegnante in campo non è il mister ma i compagni, perché è proprio dall’esempio che si impara. Non serve sempre avere una rosa di livello, a volte le cose si ottengono anche se si hanno denti affilati più degli avversari, rabbia, cinismo e voglia di correre ma, soprattutto, voglia di mordere. Nella buona e nella cattiva sorte.