Esclusiva VNV: L’intervista a Paola Paggi
Di Alberto Battimo
Si è sempre detto che lo sport insegna tantissimo, che ti aiuta a crescere e affrontare le varie vicissitudini quotidiane nella giusta maniera. Fortunatamente ci sono tanti atleti che, dopo aver vissuto una carriera da protagonisti, mettono a disposizione le loro esperienze per far crescere al meglio gli sportivi di oggi. Abbiamo dato voce a una campionessa, da qualche anno “mental coach”, capace di risollevare vari atleti dal punto di vista mentale. Per noi della redazione è un privilegio dare la parola a una “totem” della pallavolo, capace di vincere sia in Italia che in Europa, senza dimenticare i successi ottenuti con la Nazionale. Lei è… Paola Paggi.
Dopo la fine della tua carriera sportiva ti sei subito “buttata a capofitto” sullo studio della salute mentale, grazie alla tua professione di “mental coach”. Non è da tutti ricoprire questa funzione, è un ruolo delicato e richiede molta empatia. Prima di concentrarsi sugli altri bisogna lavorare su sé stessi, per capire quanto si è “portati” ed efficaci. Qual è stato il tuo bagaglio personale, utile per intraprendere questo nuovo percorso? “Nella mia carriera sono stata nominata capitana varie volte. Ruolo che mi ha pesato molto all’inizio del percorso, ero giovane e non pensavo di possedere i crismi richiesti dalle diverse società. Questo però non mi ha fermata: ho apprezzato la scelta e sono andata avanti, convinta delle mie capacità. Grazie a questo incarico ho avuto la possibilità di interagire molto con compagne, staff e società. Il mio compito era quello di mantenere saldi i rapporti, così da garantire una comunicazione efficace e utile alla causa. È stato importante intraprendere questo incarico nel primo periodo della carriera, mi ha aiutata a crescere sotto il profilo relazionale. Questo interesse non è mai scemato anzi, negli anni ho avuto modo di accrescere i vari rapporti e di conoscere sfumature sempre più nascoste, con la capacità di saperle anche valorizzare. Stimolata dai risultati e dal lavoro svolto durante la mia carriera, decisi di proseguire su questo tema: cominciai ad ampliare l’argomento e a farlo diventare un lavoro a tutti gli effetti. A dire la verità avevo iniziato il master già negli ultimi anni della carriera, ma i vari impegni sportivi non mi permisero di concluderlo. Dopo essermi ritirata è stato tutto più semplice, sono riuscita a terminare il mio percorso di studi rispettando la tabella di marcia che mi ero imposta. Alla fine il bagaglio sportivo, unito ai vari studi, ha rappresentato la combo perfetta per potenziare le mie abilità e saper interpretare le varie situazioni nella maniera più consona possibile. Sono così affascinata da questo argomento che sto aggiornando i miei studi: sono al terzo anno di “Scienze Tecniche e Psicologiche", con l’obiettivo di chiudere un cerchio e completare la mia formazione a 360°”.
Quando è nato l’interesse per questo tema, a tal punto da studiarlo e da farlo diventare una delle tue professioni? “Questo mio ruolo all’interno di una squadra è stato utile anche nella quotidianità. Molti amici si sono affidati a me nel raccontare i loro stati d’animo, confidando nella mia fiducia e comprensione. I riscontri ottenuti sono sempre stati positivi, tanti mi hanno ringraziato e hanno considerato preziosa la mia vicinanza. Questo è stato il “cuore” del messaggio: molti sono stati proprio espliciti, consigliandomi di convertire questa mia attitudine in un lavoro vero e proprio. Il totale appoggio ricevuto è stata la mia forza, all’inizio non credevo nelle mie capacità. Vedere la soddisfazione e la gioia negli occhi di chi ce l’ha fatta, grazie al mio aiuto, mi ha reso più consapevole e sicura”.
Come fa un “mental coach” ad ottenere la fiducia del proprio assistito? “Eh, questa è una bella domanda. È difficile dare una risposta univoca, dipende dal caso che si ha davanti. All’inizio punto a farmi conoscere, voglio subito far capire all’assistito chi ha di fronte, penso sia l’approccio migliore per ottenere una certa confidenza. Sono molto me stessa, sono sempre aperta e sorridente. Solo così si ha la possibilità di conoscere appieno il loro umore, è una fase importante perché molti tendono a nascondere certi particolari, ritenuti invece fondamentali per valutare i passaggi corretti da compiere. Fare questo lavoro significa essere empatici, ogni situazione mi coinvolge e impegna quotidianamente. Inoltre tante persone si rivolgono a me perché conoscono la mia storia, questo è già un buon punto di partenza. Questo comporta una sicurezza maggiore da parte loro nei miei confronti, sanno che su di me possono contare”.
Una delle mental coach più rinomate è Nicoletta Romanazzi. Famoso il suo lavoro psicologico su Marcell Jacobs, capace di fargli vincere l’oro olimpico a Tokyo nel 2020, dopo averlo convinto a correre la finale. Prendendo spunto da questo racconto, ti pongo la seguente domanda: ti è già capitato di risolvere positivamente un caso complicato o che richiedeva tempi di soluzione brevi? “Personalmente sono soddisfatta del mio lavoro, chi si rivolge a me sta ottenendo dei risultati soddisfacenti, questo mi conforta tantissimo. Mi è capitato di sostenere un’atleta in una partita decisiva, prima di scendere in campo: non era nello stato mentale giusto, voleva ritirarsi. Grazie ad alcuni esercizi di respirazione e di visualizzazione sono riuscita a darle serenità, così da farla competere nelle giuste condizioni. Non ha vinto il torneo ma è riuscita a vivere questa esperienza nel “mood” giusto, alla fine mi ha ringraziata perché questo episodio le ha permesso di crescere anche sotto il profilo della responsabilità. Se si ha più tempo per lavorarci i risultati arrivano più facilmente, nel caso di Jacobs è stata bravissima la Romanazzi: in poco tempo convincere un campione a scendere non solo in pista, ma fargli anche conquistare la medaglia d’oro, è stato un successo sotto tutti i punti di vista. Complimenti a lei: è una “mental coach” di alto livello, seguo molto le sue storie e aspiro a seguire le sue tracce”.
Qual è l’obiettivo finale del “mental coach”? Esiste un momento preciso in cui si giudica completo il lavoro su un atleta e lo si lascia camminare da solo? “Non impongo mai delle regole, spesso lascio decidere all’atleta se ha bisogno ancora di me o si sente abbastanza sicuro da poter andare avanti senza il mio supporto. Alcuni li seguo tutta la stagione, a prescindere dai risultati, altri chiedono il mio intervento in determinate situazioni. Il rapporto si conclude nel momento in cui l’obiettivo è stato raggiunto, questo non vuol dire che chiudo totalmente le porte a quell’atleta in futuro, sia chiaro: se ha bisogno di me basterà un messaggio per tornare a collaborare insieme. Quando ritengo concluso il mio lavoro sono la prima ad affermare che il mio sostegno non è più necessario. È un passo importante perché l’assistito comincia a prendere le decisioni migliori per il suo percorso da solo, senza il continuo appoggio di un’altra persona. Il lavoro di un bravo “mental coach” si valuta anche dopo, in base a come l’atleta saprà affrontare le varie situazioni che si troverà di fronte. Il mio compito è quello di fornire gli strumenti necessari per riuscire ad ampliare vari lati del carattere di uno sportivo, poi starà a lui metterli in pratica e impegnarsi al massimo per diventare totalmente indipendente. Per me è importante concludere un percorso rispettando una certa tabella di marcia: voglio vedere i risultati nel più breve tempo possibile, questa è una delle mie priorità”.
In un’intervista rilasciata qualche tempo fa avevi dichiarato che il settore dei “mental coach", in Italia, era ancora molto indietro rispetto ad altri Paesi. È cambiato qualcosa negli ultimi tempi o è ancora lunga la strada da fare? “L’abbiamo nominato prima, qualcosa è cambiato quando Jacobs ha parlato della figura del “mental coach” in diretta televisiva. Da quel momento si è capito il reale bisogno nell’avere vicino una figura di riferimento, diversa da quelle già presenti all’interno di uno staff tecnico. In rapporto a tanti sport - e ad altri Paesi - continuiamo ad essere ancora indietro. Nella pallavolo non vedo ancora un sostanziale supporto di questo tipo: sono ancora le ragazze, in maniera autonoma, ad affidarsi a questa figura. Le società sportive italiane non sono ancora entrate nell’ottica di dover spendere dei soldi per integrare un ruolo così importante, purtroppo la questione economica influenza certe decisioni. Alcune squadre, invece, non credono nel “mental coach”, ritenendola una figura non indispensabile. Milano so che ha uno staff di psicologi a disposizione per la squadra, questo è un buon segno e deve essere preso da esempio. In linea generale vedo le società sportive ancora limitate su questo tema, all’estero sono un po’ più avanti. Rimango fiduciosa, ci stiamo arrivando, un po’ a rilento ma la strada è quella giusta”.
Nella tua carriera hai affermato che hai dovuto gestire dei conflitti interni con alcune compagne e allenatori, ammettendo che un “mental coach” ti avrebbe aiutata. Come hai superato quei momenti e quanto può essere importante accrescere le proprie sicurezze affrontando certe situazioni in “solitaria”? “Nel corso della mia carriera ho vissuto diversi conflitti, in quei momenti una figura di riferimento mi avrebbe aiutata ad affrontarli meglio. Mi ero totalmente eclissata e chiusa in me stessa, non avevo voglia di lottare e di mettermi in mostra. Ho sofferto molto, non riuscivo a reagire e a rivedere la luce. Continuavo a perdere autostima e fiducia, le mie prestazioni non erano di livello e anche le relazioni quotidiane non erano costruttive. Questi periodi negativi non dovrebbero accadere, stiamo parlando di sport e non di argomenti più toccanti e profondi. Comunque, col senno del poi, un “mental coach” mi avrebbe fatto analizzare la situazione in una prospettiva differente, magari sarei riuscita a instaurare dei rapporti diversi ottenendo dei risultati migliori. Sicuramente esserne uscita “da sola” mi ha aiutata tantissimo, ho imparato tanto da quei momenti ma non è stato un percorso semplice. Se mi fossi rivolta ad una persona di fiducia sarebbe stato meglio, avrei affrontato il tutto con più sicurezza e serenità. Non c’è niente di male nel chiedere aiuto, avere un supporto è utile per uscire da una brutta situazione in poco tempo e con meno sofferenza. Trascinare certi pensieri per dei mesi, o addirittura anni, è deleterio perché perdi occasioni e cali di qualità senza accorgertene”.
La tua carriera sportiva parla da sola, numerosi sono i tuoi successi ottenuti sia con squadre di club che con la Nazionale, sei un “monumento vivente” della pallavolo italiana. Oltre al palmarès e alle tue doti da centrale, in quale altro aspetto vorresti essere ricordata? “Mi piacerebbe essere ricordata come una “donna spogliatoio”: mi sono sempre completamente donata alla squadra, sia nel bene che nel male. In qualsiasi situazione ho sempre creduto nel team, questo pensiero mi ha sempre stimolato a lottare e ottenere il massimo. Esistono poche giocatrici che posseggono questa qualità, sarebbe un motivo di orgoglio aver lasciato un segno”.
Paola Paggi ai tempi in cui militava nell’Asystel Novara
A Novara hai vissuto tre anni splendidi, diventandone capitana nell’ultima tua stagione. Eri all’apice della tua carriera, costellata già di vittorie e varie affermazioni. Ci vuoi raccontare quel periodo novarese e quanto ha incrementato la tua autostima? “I tre anni vissuti a Novara sono stati bellissimi. La prima stagione è stata la più difficile: arrivavo da Bergamo, a quei tempi una delle squadre più forti del panorama italiano e non solo e non fu una mia scelta lasciare la squadra orobica. Nonostante questo Novara ha incrementato la mia crescita personale, col tempo sono riuscita a mettere in mostra le mie qualità. I successivi due anni sono stati stupendi: mi allenavo insieme a delle compagne formidabili, in un ambiente unito e consapevole della propria forza. Pensa che in quegli anni l’Asystel aveva uno psicologo a disposizione della squadra, quanto ci aveva aiutato avere un sostegno del genere durante la stagione. È stato bravissimo, ha sempre toccato i tasti giusti e interpretato al meglio ogni situazione. Ancora oggi ci sentiamo ed è diventato un caro amico, mi sta aiutando nei vari percorsi di studio. Il ricordo è assolutamente positivo, molte amiche di Novara le sento ancora con piacere. Non solo, Novara è sempre una tappa gradita e ci torno spesso, insieme a Bergamo sono le due città con cui ho mantenuto più legami. Ho dato e ricevuto tanto, non solo in ambito sportivo ma anche a livello affettivo”.
Gli sportivi non possono fare a meno dei tifosi, molte volte il loro sostegno ha cambiato anche l’esito di una partita. Anche loro, in qualche modo, influenzano l’aspetto mentale di chi scende in campo. Com’è vista la figura del tifoso e su chi hanno il totale controllo, sia nel bene che nel male? “Il ruolo dei tifosi è essenziale, all’interno di un palazzetto è ancora più accentuato. Quando c’è il tutto esaurito il clima di festa è fantastico, la loro influenza è determinante per quanto riguarda il risultato finale di una partita. Personalmente, con un ambiente del genere, soffrivo molto questi contesti da avversaria. In casa ovviamente provavo una sensazione diversa, mi caricavo tantissimo e la spinta dei miei sostenitori risultava fondamentale per arrivare alla vittoria. Ho sentito tanti pareri di giocatrici durante il periodo Covid, tutti erano concordi sul fatto che giocare in un palazzetto vuoto è stata una tristezza infinita. I tifosi fanno la differenza, sono linfa vitale per l’intero mondo dello sport”.
Vuoi lasciare un messaggio a tutti i tuoi sostenitori e agli amanti della pallavolo? “Ultimamente non mi vedete tanto in giro per i palazzetti perché sono abbastanza impegnata con lo studio e i vari appuntamenti. Questo però non significa che mi sono allontanata dalla pallavolo, rimango pur sempre un’atleta. Seguo tutte le partite con molta attenzione, conosco tutte le dinamiche avvenute durante l’ultima stagione. Questo sport rimarrà per sempre la mia più grande passione, grazie a tutti per l’amore e la vicinanza che mi avete dimostrato nell’arco di tutta la mia carriera. Ci sarò sempre per la pallavolo, anche se in una veste diversa, con la speranza di vedere sempre più “mental coach” nei vari staff. A presto e un forte abbraccio!”.
Grazie a Paola Paggi per la disponibilità nel concederci questa intervista. A lei va un grandissimo “in bocca al lupo” da parte di tutta la redazione del sito.